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Indice "Compaesani da ricordare"
  
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   
   

   
 
   
   
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FERRUCCIO MISSIO
Passons 1906 - Jablanica 1943

Pubblichiamo i passi conclusivi del romanzo "Cittadino, Soldato, Eroe" di Antonio Lenoci, che racconta la storia di Ferruccio Missio e, indirettamente, dei suoi commilitoni.

* * *

Tutto pare normale, anche la retorica.  E' la solita, da tribunale dei soviet della Russia del 1920 ma, io non sono ancora convinto che tutto finisca così. Ci stanno conducendo oltre il piazzale verso il ridosso del ponte ferroviario.
L'aria è gelida, frizzante, sento il sangue sciogliersi ed entrarmi con violenza nella testa. Le gote, le orecchie mi si sono infiammate, immagino di essere rosso come un gambero.

Il prato che attraversiamo è brullo; il continuo calpestio ne ha rovinato la cotica erbosa. II cielo è terso, limpido, è la prima giornata di bel tempo che vedo. Il sole non riscalda ma è luminoso. È una giornata come quelle che si hanno in Carnia nel mese di febbraio: di fronte la pendice verdeggiante della montagna, sotto scorre tumultuoso, rapido, ma pulito il fiume.
Mi prende una forte nostalgia di casa, del mio piccolo giardino, dei miei figli, di mia moglie, dei miei amici, di tutto quello che è stato mio. Mi chiedo: cosa faccio in questo posto, trattato come una bestia, da gente che non conosco, che ha diritto di malmenarmi, picchiarmi, di tenere la mia vita in sospeso, di decidere della mia sorte, della mia esistenza; perché tutto questo è possibile? Interrompe i miei pensieri un miliziano che passa di corsa.

Si ferma di scatto, ci conta velocemente e indica di continuare fino dove c'è il ridosso di terra. È un grosso avvallamento nell'alveo del fiume. Tutto regolare, stando alle parole del triestino dovremmo attendere di essere chiamati per essere sottoposti all'interrogatorio. Siamo in attesa. L'aria fresca ha spento il nervosismo di tutti questi giorni passati in cattività, nello sporco e nel buio: ora cominciano a gelarsi le membra. In noi c'è calma, mi accorgo che tutti evitano di riflettere per non pensare al peggio.
«Le cose si aggiusteranno» dice Sansoni. Ha moglie e un figlio che sta per nascere, « non vedo l'oro di sbarbarmi e spidocchiarmi; in quel letamaio devo averne presi tanti di pidocchi e cimici e tutti di buono razza slava». Sorride, ha gli occhi chiari. Se dovessi scegliere degli occhi per fabbricare un angelo prenderei proprio i suoi, sono celesti e lo sono ancora di più in questa luminosa giornata invernale.

Passa ancora il miliziano con l'aria di chi vuoi farci un favore e mette nelle mie mani un pacchetto di sigarette. Non ho il tempo di pensare che tutti mi si affollano intorno e cercano di averne più di una. Nel frattempo, vedo i miei soldati che tentano di venire verso di noi, ma vengono allontanati e ammassati in un'altra porte del prato, al nostro fianco, ad un centinaio di metri. Ci osservano. Torna il sottufficiale slavo e ci conta. Siamo di nuovo in trenta.
Mi assale un dubbio. Chiamo concitatamente Sansoni: «Qui ci vogliono fucilare, coraggio prepariamoci». Non mi sbaglio. «Ragazzi è finito»! Alzo la voce. «Soldati, dimostriamo loro chi sono gli Italiani!»

Mi guardano smarriti, increduli, sono confusi. I miei compagni di sventura non vogliono credere. I nostri soldati guardano addolorati, qualcuno piange, altri sono impietriti.
Li abbraccio tutti con lo sguardo; li conosco uno per uno. Hanno capito che è veramente finita per noi.

Vedo correre verso di me Angileri, che il caporal maggiore Cognolato tenta di trattenere. Si era confuso con i soldati. Urla e continua a dichiararsi ufficiale e dare dei bastardo al miliziano che non vuole farlo avvicinare. Non mi ero accorto uscendo, che si era mescolato con la truppa. Non lo avevano chiamato.
Mi viene incontro. Caro ragazzo lo rimprovero con gli occhi e riesco a chiedergli: «Perché lo fai? Salvati, sei giovane, hai solo vent'anni». Con tono che non ammette replica: «Sono italiano, sono ufficiale e scelgo la via dell'onore».
Ormai è anche inutile convincerlo. Apro le braccia a questo ragazzo che sento mio figlio e lo sento con tutto il mio essere; ora, in punto di morte, desidero che mio figlio vero, possa divenire, essere, rassomigliare nella generosità, nel coraggio e nell'ardore o questo vero italiano.

Abbraccio e stringo a me Angileri. Guardo in faccia uno per uno i miei ufficiali. Il sottotenente Sorrentino, mi tende la mano e me la stringe con forza. Lo sento sicura come è il suo volto. Gli dico: «Sei stato un buon soldato ed un eccezionale combattente. Bravo! Coraggio». «Grazie» mi risponde, assume lo posizione di «attenti» e saluta militarmente. Sono stati tutti bravi soldati.
Anche Sansoni mi stringe la mano. Guardo quelli della «Murge». Nessuno ha lacrime che scendono dagli occhi, nessuno mostra di avere paura. Il freddo non è più clemente con noi ma ancora generoso: non ci permette, in questo frangente, di apparire pallidi. Siamo tutti rosei: i nostri soldati ci guardano e piangono, sono disperati. Muoio contento di sapermi amato dai miei uomini. Ho sempre avuto fiducia negli italiani, nel mio popolo che è uno dei pochi al mondo dove gli eroi nascono in ogni borgo e contrada.

Davanti si è schierato il plotone di esecuzione. Armano i moschetti. Nelle nostre file non c'è smarrimento, solo coraggio e compostezza. Grido: Viva l'Italia! Un lampo e sento penetrarmi dal piombo rabbioso dei miei carnefici: non li sento nemici, nemmeno amici. Non sono niente. Le leggi morali è probabile che nessuno le abbia mai scritte, ma, i veri popoli, le rispettano da sempre perché le conoscono. Questo, purtroppo, è un popolo che non le ha mai apprese.

Antonio Lenoci, Il Senso dell'Onore, Editoriale Alpe Adria, Udine 1991
(riproduzione autorizzata dagli eredi dell'autore)

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