IL BEATO BERTRANDO - di Mario Turello
Il 6 giugno 1350, sulla piana della Richinvelda, in
prossimità del guado sul Tagliamento, la comitiva di Bertrando
di San Geniès, dal 1334 patriarca d’Aquileia per nomina di
Giovanni XXII, di ritorno in Friuli da Sacile, fu sorpresa da
un gruppo di feudatari nemici, guidati da Enrico di
Spilimbergo. (NDR: uno degli aggressori, Ermanno di Carnia, è
ritratto nella chiesetta di Santa Caterina a Pasian di
Prato)
Nello scontro il novantenne Bertrando rimase ucciso e il
suo cadavere fu trasportato a Udine su un carro; compagne del
suo ultimo viaggio due meretrici. Grande fu l’impressione di
quella morte violenta, a Udine soprattutto, sua sempre fedele
città d’elezione. Iniziava (o meglio riprendeva) la “laboriosa
fine” del Patriarcato: esattamente settant’anni dopo la morte
di Bertrando, il 6 giugno 1420, i Veneziani entrarono in
Udine.
Come scrive Giordano Brunettin, il governo bertrandiano era
stato «l’estremo tentativo di scongiurare il decorso negativo
inscritto nell’evoluzione delle strutture dello stato
aquileiese imprimendole una svolta che la conducesse verso la
formazione di un principato centralizzato affine per
organizzazione e per forme di governo allo Stato della
Chiesa»; la morte di Bertrando segnò la fine del sistema
“burocratizzato” da lui instaurato e il ritorno, col suo
successore Niccolò di Lussemburgo, al vecchio modello di
dominio personale puntellato sulla potenza personale.
Non è questo il luogo per una ricognizione storica della
vigorosa azione di Bertrando principe e vescovo sullo scenario
interno e internazionale, alle prese con i conflitti intestini
delle fazioni friulane e con le minacce di annessione di
piccole e grandi potenze finitime, e spesso in contrasto con
la mutevole diplomazia papale. Basti dire che, se il suo
conterraneo (di Cahors, nel Quercy) Jacques Duèse, papa
Giovanni II, l’aveva eletto (senza che questo escluda moventi
nepotistici, per legami forse parentali) dopo aver per lunga
prova conosciuto e apprezzato in lui l’abilità diplomatica, la
competenza giuridica, lo zelo pastorale, Bertrando da
patriarca esercitò le sue virtù con straordinaria energia,
contemperando il lavorio politico e l’impegno militare con la
sollecitudine per l’economia, la cultura e l’organizzazione
della metropoli ecclesiastica aquileiese.
Più pertinente in questo contesto è ripercorrere le tappe
della sua entrata nella leggenda di cui
il cippo di Bonavilla –
rustico monumento di appropriazione del luogo della morte del
Beato - è un significativo tassello. Interpretata la sua morte
come martirio per la libertas ecclesiae (non senza
accostamenti a san Lorenzo e a san Tommaso Becket), sull’onda
di una devozione che presto vide fiorire miracoli intorno alla
sua tomba, Bertrando fu trasfigurato da un’agiografia tanto
sincera che strumentale, se il principale promotore della sua
santificazione fu l’immediato successore Niccolò di
Lussemburgo.
Nella memoria collettiva, nell’immaginario popolare, il
formidabile principe fu sostituito dal pio pastore, dal
martire, dal taumaturgo, utile a consolidare l’incerto potere
del nuovo patriarca e a vieppiù giustificare la micidiale
rappresaglia nei confronti degli uccisori del “martire” e dei
loro complici.
Sepolto dapprima sotto una lastra terragna davanti
all’altare maggiore della cattedrale di Udine, nel 1353 il suo
corpo trovato incorrotto fu collocato (ma si dovettero
tagliare i piedi) nella splendida arca marmorea che egli
stesso aveva destinato alle presunte spoglie di Ermacora e
Fortunato: sostituzione/identificazione di forte carica
simbolica. E Bertrando, i cui abiti insanguinati s’erano
dimostrati reliquie miracolose, già era dichiarato santo dalla
vox populi.
E i Veneziani, entrando in Udine, non mancarono di
legittimare la dedizione della città come provvidenziale e
dovuta all’intercessione del santo del cui martirio proprio
quel giorno cadeva l’anniversario; fu poi il patriarca
Francesco Barbaro, alla fine del Cinquecento, il primo a
chiedere a Clemente VII di autorizzare il culto del beato,
allora più che mai connotato come vescovo esemplare, secondo
il modello di santità impersonato all’epoca da Carlo Borromeo.
A metà del Settecento, in occasione dell’erezione dei
vescovadi di Udine e Gorizia, la richiesta di approvazione
canonica del culto (che fu concessa da Benedetto XIV nel 1756,
ma senza riconoscere il martirio) coincise col radicarsi del
mito della friulanità di Bertrando, ad opera soprattutto del
canonico udinese Francesco Florio che nella sua vana lotta per
mantenere in vita il Patriarcato fece di lui un campione
dell’autonomia aquileiese.
Mito che perdura, ad esempio nel simbolo della Camera di
commercio di Udine, in cui figura il patriarca: il che,
osserva Andrea Tilatti nella sua misurata demitizzazione di
Bertrando «può combaciare con la solerzia che Bertrando
storicamente mostrò per la tutela dei traffici (lottando
contro alcuni friulani dalla “testa dura”), ma di sicuro
sottintende lo scopo di rifarsi a una personalità avvertita
come schiettamente udinese e friulana».
E non mancano – aggiungo io - i segnali di altre
appropriazioni, ideologiche e politiche, a riprova del fascino
che la figura del grande patriarca francese ancora esercita,
sì che ad essa ancora si ricorre, a proposito o a sproposito.
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